Piazza Purgatorio: Una lettera d’amore all’Italia al tempo della pandemia

“T’avia sarbàtu du aranci. Ma…” mi dice zia Carmela. “Ti avevo messo da parte le arance. Ma…” sospira.

Sono al telefono con lei e parliamo in siciliano, la nostra lingua madre. “Cu è? A nuòstra Francuzza?” sento lo zio Luigi in sottofondo.

Io sono a Montreal e loro a Joppolo Giancaxio, il paesino in provincia di Agrigento dove sono cresciuta. Alla fine di febbraio ero pronta a partire per una visita di nove settimane, con i dollari già cambiati in euro, l’elettronica sincronizzata, le valigie etichettate, il taxi per l’aeroporto prenotato, quando…

Tradotto dall’inglese da Alessandra Osti
Read in English.

Immagino la zia Carmela e lo zio Luigi in cucina, seduti sul divanetto arancione che fa parte dell’iconografia della casa dei miei nonni, di quel colore tipico degli anni settanta anche se il divano è stato preso molti anni dopo.

La voce dello zio Luigi risuona: “Cu è? A nuòstra Francuzza.” La sfumatura di quella frase in siciliano non può proprio essere restituita dal “Chi è? La nostra piccola Francesca?” Perduta nella traduzione è l’inconsolabilità del momento, di questo momento; perduto nella traduzione è il timbro melodioso dello zio Luigi; e anche il senso di appartenenza e di essere amata incondizionatamente quando due parole semplici e un diminutivo – A nuòstra Francuzza – vengono pronunciate in una lingua che sta scomparendo, da un amatissimo zio di ottantadue anni che sta cominciando a perdere la memoria. Quelle parole dimostrano che mi ricorda ancora, e vengono dette in un paesino italiano del sud che lotta per non scomparire, nei primi giorni di una strisciante pandemia che ci potrebbe impedire di vederci per molte stagioni, forse non prima che gli aranci davanti alla finestra di mia zia e di mio zio tornino a dare i frutti. Alla fine di febbraio non potevo sapere che le parole dello zio Luigi contenevano già una perdita così grande.

Montreal è il posto esatto dove dovrei essere in questo momento. Quella di non andare in Sicilia è stata la scelta giusta. Il 27 febbraio, il giorno della mia partenza, le indicazioni in Canada riguardo agli spostamenti non necessari si limitavano a poche regioni del nord Italia. Così non ho annullato il mio viaggio. L’ho rimandato di qualche settimana, credendo che la situazione si sarebbe stabilizzata e sarei potuta partire in tutta sicurezza senza che la mia famiglia dovesse preoccuparsi. Quanti di noi hanno fatto delle scommesse del genere senza sapere che stavamo precipitando verso questo momento?

All’inizio di marzo, quando pensavo che magari… chissà… forse sarei ancora potuta partire, riguardavo ossessivamente i dettagli del mio itinerario: Montreal/Trudeau-Roma/Fiumicino-Catania/Fontanarossa. Immaginavo l’aereo che atterrava all’ombra dell’Etna e che apriva il portellone sulla primavera mediterranea. Tutto intorno a me la cantilena gutturale e morbida dell’italiano, dell’italiano con le inflessioni siciliane, del siciliano con inflessioni italiane e il siciliano dei miei nonni… il fatto stesso che io riesca a cogliere queste distinzioni conferma che sono di questa terra. Mi prendo un arancino e un cappuccino, e sorrido pensando al gran disgusto che i siciliani hanno per quest’usanza degli stranieri di bere il cappuccino dopo colazione: “Che schifo! Ti duna acitu. Ti farà acido.” Sono di questo posto e di un altro.

Il mio sogno ad occhi aperti si espande come un arcobaleno sull’Atlantico. Sono sull’autobus da Catania ad Agrigento, un viaggio meditativo di tre ore. Come sempre, sono ipnotizzata dall’Etna, dalla sua immensità, dall’audacia del suo temperamento. Tifone, il serpente dal soffio di fuoco che vive sotto la montagna, oggi è tranquillo. La cima del vulcano è innevata, e ne sono felice: nella mia valigia ci sono dei snow globes, palle di vetro con la neve per i miei amici siciliani, alci, castori e orsi polari chiusi in quelle sfere con dentro l’inverno. La strada tortuosa passa per vallate di pascoli verdi, mandorli e mimose in fiore, attraversa paesi rannicchiati su picchi elevati. Ad Agrigento, Gino, un paesano che coltiva il piccolo appezzamento di terra della mia famiglia – Gino è un gigante buono, molto loquace – esclama con la sua vociona, “Francè!” prima di stringermi in un abbraccio che mi leva il fiato. Poi mi porta a Joppolo, dai miei zii.

***

Durante la pandemia del COVID-19 sono esattamente dove dovrei essere, a Montreal, con mia madre, mio fratello, mia cognata e le mie adorate nipoti, con il resto della mia famiglia e i miei amici. Più esattamente, siamo “rifugiati in casa” nelle nostre case, ma poiché siamo tutti nella stessa città, siamo gli uni “con” gli altri. Devo ripetermelo, con lentezza e concentrazione, ricordandomi di respirare: “Sono al sicuro a Montreal, Montreal è casa, è dove devo essere e dove sono.” Ma anche il ripeterlo in continuazione non può lenire il desiderio struggente di essere a Joppolo con i miei zii, quegli zii per cui io sono la nuòstra Francuzza.

Molti di noi, separati per via della pandemia dalle persone che amiamo, stanno sperimentando qualche versione di questo desiderio angoscioso. Ed è insopportabile.

La doppia identità è insita nell’essere italo-canadese. La profondità del legame con cui ognuno di noi è connesso all’Italia è molto individuale. A marzo, però, mentre i segnali di pericolo della “situazione in Italia” diventavano sempre più allarmanti, la diaspora italiana tratteneva il fiato, collettivamente, e condiviso il cuore spezzato. Un cuore unico. Le notizie sulla insondabile tragedia laggiù, rimbalzavano fra i milioni di persone di discendenza italiana sparsi per tutto il pianeta, facendo esplodere la consapevolezza di una identità con il trattino. Essere italiani soltanto in parte – perché siamo anche canadesi/americani/argentini/australiani/libici/tedeschi – è una distinzione senza senso davanti alla devastazione. Abbiamo sofferto con un unico cuore.

“È stata dura dover restare così lontana dalle persone a cui voglio bene. Ho parlato con mia nonna a Milano [usando] Skype per chiamarla sulla linea fissa, e mi ha colpito molto di più,” dice un’amica, Valerie Curro Khayat. “Una settimana prima che tutto questo si intensificasse, c’è stata una morte improvvisa nella mia famiglia a Milano (non dovuta al virus) e, ovviamente, niente funerale.” Valerie è una cantautrice di Montreal e si esibisce in italiano, inglese e francese. Il lancio ad aprile della sua raccolta di poesie all’Istituto Italiano di Cultura di Montreal è stato necessariamente rimandato. “È una cosa molto strana e molto profonda quella che stiamo passando, specialmente per quelli di noi che hanno parenti in Italia, perché la situazione là si è aggravata prima di qui, ed è tutta un’altra cosa.”

Anch’io ho dei parenti a Milano: mio cugino, Giuseppe, e i suoi figli, Greta, un topo di biblioteca, e Leonardo, un cucciolo birichino. “Non lo so… non lo so,” mi scrive Giuseppe su WhatsApp verso la fine di febbraio. Erano i primi giorni in cui si provava a capire qualcosa di quello che stava succedendo. “Credo che gli italiani vivano in una specie di melodramma… a Milano la situazione è assurda, [come] un film di George Romero.” Ho letto quelle parole sul cellulare e ho sentito l’adorabile inglese con accento italiano di Giuseppe immaginando i suoi figli che fanno un gioco da tavola in salotto. Qualche settimana dopo, un’eternità in tempo di pandemia, la quarantena è diventata la loro nuova normalità: “Grazie a Greta e a Leonardo, la mia giornata è molto ben organizzata, le loro lezioni online la mattina e il mio lavoro il pomeriggio. Non è facile… non avere contatti con le persone!!! I love you my dear!” Io rispondo: “❤️🇮🇹❤️🇨🇦”

Mi scopro a cercare Giuseppe, in modo irrazionale, in MILANO CITTA’ CHIUSA, un video pubblicato sul sito web del New Yorker. La telecamera di Franco Pagetti osserva una Milano cosmopolita ridotta a una spettrale città fantasma. Il film rievoca per inciso un’idea più vasta di “Italia,” l’amata cultura della civiltà occidentale che ha prodotto Verdi e la Vespa, la Cappella Sistina e Armani, Machiavelli e Vito Andolini (ovvero Vito Corleone), il Colosseo e l’espresso, la Gioconda e Fellini, Venezia e “‘O Sole Mio,” la torre di Pisa, la pizza e la piazza… l’amata terra della memoria collettiva della nostra diaspora. L’amata terra che ci ha dato i nostri anziani. L’amata terra decimata da un virus mortale.

“Andrà tutto bene,” ci scriviamo, “Everything will be OK.” I social sono invasi da immagini indimenticabili, icone istantanee della pandemia. Una infermiera, con mascherina e ali, con amore tiene in grembo l’Italia a forma di stivale in un murales su un ospedale a Bergamo, focolaio dell’epidemia in Lombardia. Gli italiani in quarantena partecipano a quelli che chiamano “flash mobs” (pronunciati in modo affascinante “flesh mobs” che in inglese descrive una folla di corpi umani): alle 18 precise cantano “Volare” o “Nessun dorma” dai balconi, dalle finestre e dai tetti, in un concerto in tutto il paese, da Treviso a Firenze fino a Napoli e a Palermo. (A Montreal, Martha Wainwright conduce un “cantiamo insieme dai balconi” per la quarantena.) I sindaci italiani urlano ai loro concittadini di starsene a casa: “Mi arrivano notizie che qualcuno vorrebbe organizzare la festa di laurea. Mandiamo i carabinieri. Ma con i lanciafiamme.” La loro sublime italianità conforta il mondo.

Gli scambi virtuali offrono un’ancora di salvezza. Ci trasportano in una piazza virtuale che trascende i confini geografici e linguistici e offre un balsamo contro una realtà spietata. Ma quando clicco sul video virale dei violinisti siciliani, i gemelli Mirko e Valerio, che suonano “Viva la Vida” dei Coldplay, qualcosa in me si rompe e piango. I due adolescenti sono di Agrigento e ho appena parlato al telefono con mia madre che contestualizza dicendomi delle morti di oggi nel nord Italia per COVID-19 in un modo che mi spezza il cuore: “Sono quasi la popolazione di Joppolo.” Vado su un’immagine che gira sul Facebook di Joppolo, quella ingrandita della Venerata Madonna, sovrapposta a quella del paese insieme alla scritta “la Madonnina del S.S. Soccorso veglia su Joppolo Giancaxio.” Non cerco conforto nella religione, ma mi unisco con fervore alla preghiera: che la Madonnina protegga i miei zii.

***

Sarei partita per Joppolo il 27 febbraio se non fosse stato per lo zio Carmelo, il padre di Giuseppe e nonno adorato di Greta e Leonardo. Stimato specialista in malattie renali, dirige vari centri di dialisi ad Agrigento, e vive a Joppolo con Carmela, sua sorella, e Luigi. Ha 74 anni.

La mia famiglia aveva paura che per la quarantena sarei finita in un incubo kafkiano, o che sarei rimasta bloccata in Italia per un tempo indefinito. Io ero prontissima a correre il rischio… fino a che mi ha chiamata lo zio Carmelo. Con il suo modo di fare calmo, che Giuseppe definisce come la “razionalità” di suo padre, lo zio Carmelo mi ha spiegato quello che stava succedendo al nord, negli aeroporti. “Pensaci…” mi ha detto, poi la sua voce si è interrotta. Nella mia famiglia lui rappresenta la più alta autorità, ‘u dutturi, il dottore, il mio amato zio, che somiglia moltissimo a mio padre, il mio papà adorato che morì improvvisamente a cinquant’anni, dopo aver lavorato giorno e notte come tanti immigrati. Dopo aver parlato con lo zio Carmelo, non potevo più andare, ma pensavo che magari… chissà… forse sarei ancora potuta partire qualche settimana dopo. Non volevo negare la situazione: il 27 febbraio in tempi di pandemia è molto remoto.

Quindi fisicamente sono a Montreal, ma in realtà però è come se fossi in Sicilia. Avevo svuotato frigo e credenza in vista della partenza, e vivevo di merendine. Avevo letto Lampedusa, un romanzo di Steven Price su Giuseppe Tomasi. Ascoltavo musica siciliana, Rosa Balistreri e i Dioscuri, un gruppo di Agrigento. Sono andata a vedere La famosa invasione degli orsi in Sicilia, un cartone animato realizzato da un libro per bambini di Dino Buzzati. Avevo comprato un’altra sfera di neve, l’ABC of Canada, illustrato, per Greta e Leonardo, degli accessori per il viaggio che non mi servivano affatto, e disinfettante per le mani Purell. Sono andata a vedere Il Traditore, un film su Tommaso Buscetta, il pentito siciliano che aveva testimoniato nel maxi processo del 1986. Con me era venuta Giovanna Carrubba, una paesana. Lei aveva progettato di andare a Joppolo a settembre… Il film ci aveva lasciato uno strascico di malinconia. Non avevamo bisogno di vedere ancora un altro sulla mafia, l’altro contagio. I dettagli sì, invece: i personaggi parlavano siciliano, avevano il modo di fare dei nostri padri, i loro capelli, le loro facce, si vestivano come loro. “Oh, mio Dio!” aveva esclamato Giovanna. “È la mia infanzia.” I nostri occhi avevano scorso avidamente lo schermo in cerca di parti minuscole di noi stesse.

È terribile, questo limbo. Studio ossessivamente le fotografie e gli itinerari che un amico, Marco Falzone, pubblica online. Marco fa la guida ad Agrigento, è specializzato in “archeotrekking,” ovvero in passeggiate all’interno della regione, e io sono là, e cammino fra le rovine deserte, un antico tempio greco, un castello arabo-normanno, una miniera di zolfo abbandonata, un bunker della Seconda Guerra Mondiale.

Nel frattempo Marco è lontano dalla moglie e dal figlio piccolo. Loro sono a Parma, nella cosiddetta zona rossa, quelle regioni del nord Italia colpite prima e più duramente. Mentre migliaia di persone sono scappate al sud, in molti casi portando con sé il corona virus, Marco e la sua famiglia hanno fatto la scelta civile e responsabile di rispettare le misure della quarantena. Sono rimasti dove erano. Il desiderio struggente produce tagli profondi in ogni direzione in questa pandemia. “Città deserte, i morti, la disoccupazione, l’ansia, la tristezza infinita,” mi scrive Marco in un messaggio.

Un’altra amica siciliana, Sonia Muro Castillo, che mi ha presentato Marco, mi stuzzica con una foto della piazza Purgatorio di Agrigento: “Arricogliti! Guarda che cielo!!! Qua, una magnifica primavera! Ti voglio tanto bene!” Di origini spagnole, Sonia ha fatto della Sicilia la sua casa molti anni fa. I suoi fratelli sono in Spagna, paese che ha superato l’Italia nelle statistiche del corona virus in Europa. Il suo negozio, Souvenirs Agrigento, si affaccia su piazza Purgatorio, che è vicina a via Atenea, la strada principale lastricata in pietra nel centro storico della città. Davanti alla sua vetrina, un carretto siciliano pieno di pale di fico d’India, un ombrellone a strisce e una sedia impagliata, accolgono i turisti e la gente del posto, gli artisti e l’intellighenzia, amici e nemici. La piazza è piccola, una piazzetta, ma ci si sente una vibrazione pulsante. Al bar Gambrinus, accanto a Souvenirs Agrigento, i clienti abituali litigano, cercano vendetta e fanno pace nel tempo che ci vuole per buttare giù un espresso, una birra Messina o un succo d’arancia appena spremuto. In un angolo della piazzetta, una coppietta è abbracciata vicino a un motorino; in un altro, un leone di pietra che dorme è a guardia dell’ingresso sbarrato di un ipogeo, parte del vasto labirinto di stanze sotterranee sotto Agrigento che risale a secoli fa. Un vecchio graffito è scarabocchiato su un muro: “l’arte muore sui social… e io pure.” Sull’altro lato rispetto al negozio di Sonia, c’è la Chiesa del Purgatorio, con la facciata in tufo locale, calda e dorata sotto il sole siciliano.

Con l’Italia chiusa, piazza Purgatorio è vuota e silenziosa: #iorestoacasa, dice la scritta che Sonia ha appeso sulla porta del negozio. Ho parlato con lei su WhatsApp dopo che aveva dovuto chiudere e ritirarsi in casa sua in campagna, dove ha degli olivi, degli alberi da frutto e un giardino. Mi ha detto che pensava di metterci un pollaio: “Con le uova e le verdure ce la farò.”

Il Purgatorio è anche la seconda parte della Divina Commedia. Qualche anno fa mi ritrovavo con altri dilettanti curiosi di Montreal in un gruppo di letture dantesche. La nostra unica regola era, niente compiti a casa. C’era di mezzo anche il cibo: “Ho pasta, sugo di carne e cheesecake,” era il tipico messaggio nelle serate in cui ci incontravamo per leggere ad alta voce due canti presi da varie traduzioni inglesi. Non posso fingere di conoscere il capolavoro di Dante più di così, ma il termine “purgatorio” è forse il più adatto per descrivere questo momento. Il mondo gira, si susseguono gli spostamenti tettonici. Quando si fermerà? E la più grande contraddizione di questo momento: per sopravvivere dobbiamo collaborare collettivamente stando da soli.

Permettetemi una licenza poetica presa a prestito da Dante. Il suo Purgatorio è sul peccato e sull’amore. In questo momento, la vicinanza umana, il toccarsi, perfino il nostro respiro, l’espressione del nostro amore è il peccato, attraverso il quale questo contagio prolifera e distrugge. Nel purgatorio della pandemia, il peccato è l’amore.

***

Mentre scrivo (il 14 aprile) ci sono 26.163 casi confermati di COVID-19 in Canada, e 823 morti. A Montreal siamo chiusi in casa da quasi quattro settimane.

Prima di provarlo qui, l’abbiamo provato là, nella nostra amata Italia, dove, finora, ci sono stati 159.516 casi confermati e 20.465 morti. Anche se resta la paura di una esplosione di casi al sud, in Italia la curva si sta appiattendo. I titoli dei giornali diventano lezioni che il resto del mondo può imparare. Sul New York Times: “Ecco che aspetto ha un paese chiuso da un mese: disperato, affamato e spaventato.”

Gli orrori di questo momento sono la morte, la perdita di sicurezza, la fame, il collasso economico. Non possiamo combattere questo nemico con il fucile. L’unica arma che abbiamo, l’unica cosa che possiamo fare, quello che ci viene chiesto, è facile. Autoisolarsi. Rifugiarsi a casa. Stare a casa. Stay home, fuck! Ma a casa siamo in purgatorio, con il desiderio doloroso di stare con chi amiamo e questa nostalgia è tangibile.

Quindi formiamo un “flesh mob.” Venite. Unitevi a me. Io sono in piazza, piazza Purgatorio. Non c’è un orario stabilito. Venite e basta.

A piazza Purgatorio lo zio Luigi alza un bicchiere di vino, quel vino che fa ogni autunno. “Toglie i peccati dal mondo,” proclama.

Salute!

“Vieni alla finestra, tesoro mio,” canta Martha Wainwright a piazza Purgatorio, perché, ovviamente, Leonard Cohen, il santo patrono della nostalgia di Montreal, è qui con noi.

“Tra di noi, c’è un filo di luce nell’universo,” canta Valerie a piazza Purgatorio.

“Ma noi rialzeremo la testa. Noi ripartiremo con la nostra fantasia e la nostra inventiva. Con volontà, lavoro e passione!” esclama Marco a piazza Purgatorio.

“Ti voglio bene,” dice Sonia.

“I love you,” dice Giuseppe.

Un cuore unico.

Francesca M. LoDico è una scrittrice e un editor a Montreal. Le sue opere sono apparse su PEN International, sul Canadian Geographic, su enRoute e su Maisonneuve, e nelle antologie People, Places, Passages: An Anthology of Canadian Writing, Conspicuous Accents e Mamma Mia! Good Italian Girls Talk Back! Ha vinto il premio Accenti Magazine ed è stata selezionata per il Premio Bressani e per il PRISM International Short Fiction Prize. Sta lavorando a un romanzo sulla sua infanzia ad Agrigento.

Alessandra Osti vive in Toscana con un figlio e una gatta e traduce testi letterari dall’inglese. Insegna italiano come seconda lingua.

Share this post

scroll to top